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Era l’undici settembre del duemilaeuno.

Ero a casa a Torino, aspettavo che arrivasse l’ora di apertura dei negozi per andare a comperare IL biglietto. Il lavoro l’avevo già, almeno sulla carta, dopo un colloquio telefonico. New York a inizio ottobre, mi dicevo, deve essere già fresca ma non ancora gelata. Prima volta oltreoceano, e per giunta per almeno un anno.

Il telefono ha squillato e l’amica migliore, quella di tutta una vita, con una voce strana davvero mi ha chiesto se avevo la tv accesa. No. Accendi. Un aereo si è schiantato sulle Torri Gemelle. Ho acceso: sembrava un film, ma era in diretta.

Il resto lo ricordo come una confusione linguistica e di immagini. I sottotitoli della CNN, l’inglese che veniva coperto dai giornalisti italiani: l’ansia di non poter sentire l’originale, le notizie veramente in diretta. Il secondo aereo, e la percezione immediata dell’atto terroristico senza precedenti nella storia.

Ricordo la faccia spaurita del direttore di uno degli uffici ai quali avevo mandato il mio resume: il sopravvissuto italiano per eccellenza, intervistato da tutti, che sapeva che il suo ufficio era bruciato, scomparso. Pensavo: avrei potuto esser lì, nella torre che si sbriciolava, se quest’uomo avesse scelto me per l’intership estiva.

Sono arrivata a New York ugualmente, a fine novembre 2001. Il Ground Zero ancora bruciava. Emanava un odore che non dimenticherò mai. Per mesi, come molti sono andata poco volentieri nel Financial District. Sono poi rimasta a Manhattan quasi quattro anni, innamorata della città, la mia isola di pietra, incrollabile e piena di luce.

Ancora oggi, quando ci si incontra tra newyorkesi o ex, e dico che ci ho vissuto in quegli anni, il discorso cade sempre sul “dove eri quando è successo”. Ancora oggi, l’undici settembre è un grumo nella memoria, che non si scioglie.

(da originale pubblicato sul forum del Corriere.it 11-09-2011, decimo anniversario)

Il mio cervello frequenta diverse lingue, e volte l’italiano non riesce a mantenere il comando.

Difficile che qualcuno se ne accorga, in un mondo di multilingui senza alcuna pretesa. Ci si corregge a vicenda le lingue non madri con leggerezza, qui in Israele. L’ebraico soprattutto, ostico a chiunque.

Ma io ancora mi stupisco quando l’inglese e l’ebraico prendono il sopravvento: nei momenti in cui la bocca  si apre d’impeto, senza selezionare quale lingua utilizzare, è più facile che sia l’inglese, lingua per nulla madre (al massimo buona amica) a vincere la corsa tra papille e labbra e a raggiungere l’esterno.

C’è stato un tempo in cui solo l’italiano poteva affacciarsi. Eppure già allora, l’inflessione dialettale torinese, veneziana e  poi toscana, emergeva a tratti, volontaria o involontaria. Dunque c’è da sempre, per imprinting famigliare o frequentazioni assidue, una possibilità di canali paralleli, di pronuncia differente di una stessa parola.

Deve essere stata questa abitudine a identificare i suoni, a lasciarmi imparare le successive lingue che ancora si aggirano, più o meno attive, nel mio cervello. Vorrei che il francese si svegliasse dal letargo; lo nutro con l’ascolto passivo e con molto amore, ma l’ebraico ha tracimato in tutte le cellette dove tenevo come tesori il dizionario e la grammatica francese. Poco male. Nelle lunghe  estati telavivesi non parlo con le frotte di francesi abbronzati che escono dalla spiaggia, ma posso ancora capire quello che dicono, poveri loro.

Ma un giorno, io, francese, ti riconquisterò.

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