Due ore buone di chiacchiere e una birra in ottima compagnia non mi sono bastate a fare uscire le immagini violente di questo film dalla testa. Però sono riuscita  a non farne incubi, quindi devo averlo riassorbito. “Chi ha paura del lupo cattivo”, è uscito giovedì scorso nelle sale israeliane, ed è candidato a 11 premi Ophir (i Donatello locali), da miglior sceneggiatura a migliori attori, passando per montaggio, colonna sonora e il trucco. Escluso solo miglior film, e non a caso.

big bad wolf

La cosa interessante è che questo cerca di essere un film universale, non specificamente israeliano in alcun dettaglio della trama principale (beh, a parte la lingua e gli attori, naturalmente). Un serial killer di bambine in puro stile americano, boschi un briciolo troppo verdi, case rivestite di legno che qui non ho mai visto. E invece è israelianissimo in tutto il resto: dialoghi, spesso surreali e telefonici con ex mogli e madri urticanti, deus ex-machina arabo a cavallo che prende in giro Lior Ashkenazi in fuga, preso alla sprovvista: “certo voi israeliani pensate sempre che vi si voglia ammazzare…”.

Funziona a scatola cinese, per accumulo di personaggi. Un professore di scuole medie è sospettato di essere il serial killer. La polizia non trova il modo di confermare i sospetti, quindi sospende un poliziotto arciconvinto della sua colpevolezza, con l’unica raccomandazione di non farsi beccare, e di fare quel che deve per farlo confessare. Il padre di una delle bambine assassinate ha intanto deciso di rapire il sospettato e farlo confessare con metodi violenti, che per tutto il film vengono interrotti da eventi esterni, con effetti comici e grotteschi. Si forma una allegra combriccola di torturatori. Sì, si ride anche. Ma il pozzo nero della malvagità umana in questo film è senza fondo. Come ogni buon film su un serial killer, e su poliziotti e civili senza scrupoli che lo vogliono fermare.

I co-registi Aharon Keshales and Navot Papushado hanno già fatto un film horror di successo nel 2011, “Rabies” (כלבת) per dimostrare che anche in Israele si possono fare film di puro entertainment: non politici, non di forti temi sociali. Adesso il messaggio è che anche in Israele si può fare un buon film sul solito serial killer. Ok, grazie, recepito.

Avanti la prossima commedia “non israeliana” dove non si parli di mamme, esercito o guerre, nuovi immigrati, cene di famiglia, provincialismo o falafel.

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